La ricerca storica, anche quella condotta da non professionisti ma da dilettanti curiosi, impegnati e appassionati, non smette mai di riservare sorprese. Spesso importanti documenti sono conservati tra le memorie di famiglia e sfuggono alla costruzione di una “memoria collettiva”.
Qualche giorno fa Claudio, figlio di Giuseppe Alberto Vitrani, il minore dei tre fratelli Vitrani (https://www.anpibat.it/la-famiglia-vitrani/) mi ha mandato la fotografia del padre che, all’epoca, aveva poco più di 15 anni e il racconto, scritto da Don Carlo Busso viceparroco di Giaveno e partigiano combattente nella stessa brigata dei fratelli Vitrani, degli ultimi momenti di vita dello zio Pietro Vitrani, prima di essere fucilato a Giaveno (TO).
PIERINO VITRANI. UNA VITTIMA INNOCENTE
Nella Vallata del Sangone è in corso un violento e poderoso rastrellamento: novembre – dicembre 1944. I giorni passano lenti, il terrore appare sul volto di ognuno.
I diciassette fucilati sulla piazza di Giaveno davanti agli occhi larghi, fissi, senza lacrime di tutta la popolazione (il 29 novembre 1944, in piazza San Lorenzo a Giaveno furono fucilati per rappresaglia 53 civili e 17 partigiani. ndr).
È la notte del 2-3 dicembre: i Tedeschi e repubblicani sono in agguato sopra la Maddalena, verso Prà Fieul, tratto tratto s’ode qualche colpo di moschetto, qualche raffica di mitraglia.
I nazifascisti sparano nel buio, tra insidie e brutte sorprese della montagna. Si dice che la compagnia di un’arma infonda coraggio al timido!
Improvvisamente un gemito s’unisce agli spari: un sergente della Littorio è ferito, non da partigiani (come più tardi affermò il sergente stesso all’ospedale) ma da un tedesco per errore. (La 2ª Divisione granatieri “Littorio” fu una delle quattro divisioni regolari dell’Esercito della Repubblica Sociale Italiana di Benito Mussolini. ndr).
La ferita minaccia cancrena: esige l’amputazione del piede; bisogna dare una lezione ai partigiani, si ricorre alla “legittima” difesa tedesca: la rappresaglia! Deve perire un ribelle della montagna.
I Tedeschi hanno nelle mani un patriota della Brigata Carlo: Pierino Vitrani, fratello dell’eroico Gero (alla cui memoria verrà intitolata la medesima Brigata).
Sono le 9 del mattino, 3 dicembre, giorno festivo. Sei Tedeschi che hanno prigioniero Pierino, entrano nell’albergo Campana di Giaveno.
Consumano un’abbondante colazione; dalla stanza attigua attende la sua sorte incerta il patriota.
Dopo lunga insistenza di un ufficiale italiano, mi viene concesso di avvicinarlo e di comunicargli la sua prossima fine. Il poveretto all’apparire di un ministro di Dio scatta in piedi, gettò le braccia e le mani bagnate di sudore freddo al mio collo; dalla gola secca esce un gemito: “Mi uccidono?”
Incomincia una breve conversazione; (i Tedeschi hanno concesso 5 minuti). Prima è la disperazione, ma a poco a poco la sua fronte si rasserena. Un segno di croce purifica la sua anima, l’ostia bianca, cibo dei forti lo sostiene.
Fuori sulla piazza, una fisarmonica con ritmo stupido, suona una canzone sguaiata. Vicino al morituro i Tedeschi consumano la colazione tra il fumo e gli schiamazzi. Hanno ancora sete, vogliono sangue umano, il sangue innocente di Pierino.
Giunge un ufficiale, dà un ordine gutturale ed energico. I sei Tedeschi scattano, impugnano l’arma, si parte verso il luogo dell’esecuzione.
La folla muta fa da ala al piccolo e triste corteo, Pierino è sostenuto da me, il volto bruno reso più scuro da una cornice di capelli neri, s’è fatto color terra. Parla a scatti, ansimante, confida le sue ultime volontà. “Salutami e abbracciami il mio papà, la mia mamma, il fratello minore, Rosina, non dimentichi mio fratello Gero che è alle Nuove per la stessa causa”. (Le Carceri Nuove di Torino furono un luogo di detenzione per oppositori politici e partigiani durante il fascismo e l’occupazione nazista, con un braccio gestito direttamente dalle SS dove avvenivano torture. ndr)
Tre Tedeschi precedono, gli altri seguono fumando con la massima indifferenza. La scena è impressionante: i più vecchi, le povere donne (mamme che forse hanno il loro figlio lontano, in pericolo) nascondono il loro volto.
Pierino sta faticando per togliere dal dito l’anello, il dito è gonfio perché il sangue quasi non circola più. Con uno strappo riesce a liberarlo, me lo consegna dicendo: “Lo consegni a mia madre, è l’unico ricordo che mi rimane”.
Si giunge al campo sportivo di Giaveno. Nessuno ha avuto il coraggio di seguire il corteo.
Pierino esprime il suo ultimo desiderio. “Dica ai Tedeschi che non sparino alla testa, per non essere sfigurato, verrà forse mia mamma a vedermi”.
Dopo una breve pausa continuò: “Voglio vedere ancora una volta il sole”. Lo fissa, beve quasi i suoi raggi che filtrano a stento attraverso le nubi e l’aria fredda dicembrina.
Non vuole avere gli occhi bendati perché un patriota non teme la morte tante volte sfidata audacemente. Le armi vengono puntate. Gli sono ancora accanto: la preghiera ed un ultimo abbraccio.
“In Lei abbraccio tutti i miei cari”. Stringe tra le dita il crocifisso. Attende. Una scarica rompe il silenzio. Il giovane corpo piega su sé stesso e cade. Il sangue esce arrossando la divisa partigiana, filtra nella terra.
Un figlio di meno per difendere l’Italia, ma un altro di più nell’albo d’onore della gloria segna un eroe vittima innocente delle feroci rappresaglie tedesche.
Don Carlo Busso
Giaveno 3 dicembre 1944
Don Carlo Busso, nome di battaglia “Busca“
La scheda Ricompart del partigiano combattente Don Carlo Busso “Busca“